Come provare la diffamazione a mezzo facebook: l’indirizzo ip può esser ritenuto elemento imprescindibile per la corretta riconducibilità dei post ai propri autori

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La maggior parte degli utenti dei social network concepisce questi spazi virtuali come zone franche, dove si possono condividere i propri pensieri e commentare qualsivoglia fatto inerente la vita altrui, senza il rischio di subire alcuna conseguenza.

Inspiegabilmente si è indotti a ritenere che un’affermazione ingiuriosa su facebook, un’offesa, una minaccia, non costituiscano un problema, né tanto meno un reato.

Nulla di più lontano dalla realtà: su internet valgono le stesse regole della realtà materiale. Se qualcuno pubblica un commento offensivo, crea un falso profilo per ingiuriare, scrive un post diffamatorio, si può agire nei suoi confronti sia in ambito penale che civile.

La prima cosa da fare, a rigor di logica, è segnalare Facebook dell’abuso subito, al fine di bloccare il profilo fake o rimuovere i contenuti offensivi o diffamatori pubblicati, alla mercè di migliaia di utenti.

La seconda mossa da compiere è sporgere denuncia-querela alle autorità competenti.

A tal proposito si consiglia sempre di rivolgersi ad un legale, il quale saprà individuare con precisione gli elementi necessari da riportare nella querela per renderla più incisiva ed efficace, nonché gli elementi di prova da allegare a conforto delle proprie affermazioni.

Si dovranno dunque indicare i contenuti offensivi e il presunto autore degli stessi, fornendo gli estremi del profilo dal quale risultano esser stati pubblicati i suddetti contenuti ed il codice ID di quest’ultimo (fornito da Facebook ad ogni utente e visibile sulla parte inferiore del tuo browser.

Può esser molto utile indicare anche nominativi di persone che hanno letto e visionato tali contenuti, i quali potrebbero esser sentiti, in un primo momento, nella fase delle indagini preliminari dal Pubblico Ministero o dalla Polizia Giudiziaria, al fine di avvalorare e sostenere l’ipotesi accusatoria, e, in un secondo momento, nel processo innanzi al giudice in qualità di testimoni.

Infine, da non sottovalutare è la produzione di documenti che comprovino i fatti denunciati.

Sarà sufficiente anche una stampata della pagina facebook incriminata o dello “screenshot” della medesima, anche se, a onor del vero, in giudizio la difesa dell’imputato ben potrebbe contestare l’autenticità del documento così acquisito.

Per tale ragione potrebbe esser utile ricorrere a metodi quali la produzione di una copia digitale della pagina web salvata, l’autentica di pagina web dal notaio, l’acquisizione di pagine web con strumenti automatici e così via.

Secondo una recentissima sentenza della Corte di Cassazione sarebbe altresì necessario fornire l’indirizzo IP di provenienza del post o del diverso contenuto offensivo (Cassazione Penale, Sez. V, 5 febbraio 2018, n. 5352).

Secondo la Corte, infatti, non può escludersi a priori un utilizzo abusivo del nickname e del profilo dell’imputato.

Ma cos’è l’indirizzo IP? Si tratta di un codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico al momento della connessione ad una determinata posizione del servizio telefonico, che permette di individuarne la linea e, con essa, la titolarità della stessa.

Può esser paragonato ad una sorta di targa che contrassegna ogni connessione internet.

In conclusione, per confermare che un post contenuto in un profilo determinato è stato effettivamente pubblicato dal proprietario dello stesso, è doveroso riscontrare l’indirizzo IP di provenienza, per verificare se anche quest’ultimo corrisponde ad un dispositivo elettronico di proprietà dell’accusato.

Alla luce di questa sentenza, si potrebbe ritenere che l’esatta individuazione dell’indirizzo IP relativo al profilo da cui sono state divulgate le espressioni diffamatorie sia elemento imprescindibile per giungere ad una corretta individuazione, ai fini della punibilità, dell’autore del reato di diffamazione commesso a mezzo Facebook.

Tuttavia, si tenga presente che la giurisprudenza, anche successiva a questa pronuncia, è solita adottare un atteggiamento più cauto e non ritiene che l’esatta identificazione dell’indirizzo IP sia elemento imprescindibile, né tanto meno dirimente, ai fini della corretta riconducibilità dei post ai propri autori.

La giurisprudenza, al contrario, ritiene che debba esser presa in considerazione la convergenza degli ulteriori indizi raccolti, quali, ad esempio, il movente che ha spinto il soggetto alla commissione del reato (Cass. pen. Sez. V, Sent. 05-03-2018, n. 9942), o il concreto contegno del reo, desumibile dall’eventuale proposizione di denuncia di usurpazione di identità o dal tentativo di cancellazione dei post disconosciuti (Cass. pen. Sez. V, Sent. 02-02-2018, n. 5175).

Ad ogni buon conto, nel caso in cui l’autorità inquirente ravvisi gli estremi del reato denunciato, verrà esercitata l’azione penale e si instaurerà un processo, ove la vittima che ritenesse di aver subito un danno dal fatto illecito potrà costituirsi parte civile e chiedere il risarcimento dei danni in questione, patrimoniali e non.


 

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