Il coniuge può chiedere l’annullamento degli accordi di separazione consensuale per violenza morale in presenza di specifici requisiti previsti dalla legge

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Il Tribunale di Milano, con ordinanza 08 ottobre 2016, si è occupato di annullamento degli accordi di separazione per violenza morale, statuendo che, a questi fini, non possa integrare tale vizio di volontà la mera rappresentazione interna del pericolo, anche se collegata a circostanze oggettivamente esistenti.

La vicenda traeva origine da un accordo di separazione consensuale tra due coniugi, genitori di un minore, omologato dal Tribunale di Milano nel 2011, e successivamente impugnato dal marito ai fini di ottenerne l’annullamento per violenza morale. L’accordo di separazione, da un mero punto di vista patrimoniale, risultava particolarmente “gravoso” per il marito, il quale, a distanza di cinque anni, ne richiedeva l’annullamento, adducendo che la minaccia della moglie di fissare la residenza della figlia in un luogo lontano da quello abituale, qualora questi non avesse firmato gli accordi per la separazione consensuale, integrasse violenza morale ex 1434 e ss c.c.

Il Tribunale di Milano, pur ritenendo l’annullamento degli accordi di separazione astrattamente ammissibile secondo quanto disposto dalla Cass. Civ. n. 17902 del 2004, negava nel caso di specie la presenza degli estremi del vizio del consenso lamentato dal marito.

Ai fini dell’annullamento ex 1434 e ss c.c., infatti, è necessario:

  1. che la minaccia sia specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione dell’accordo di uno dei contraenti;
  2. che la minaccia sia esercitata da una delle parti (o da un terzo);
  3. che la minaccia abbia una natura tale da incidere, con efficacia causale, sulla volontà del soggetto passivo, il quale, in assenza della minaccia, non avrebbe concluso l’accordo.

Nel caso in esame, al contrario, viene rilevato che il timore del marito è del tutto soggettivo ed interno.

Inoltre, dato che nella realtà dei fatti, i patti, per ciò che concerne le clausole economiche, sono stati disattesi dal marito (il quale aveva omesso di versare gli assegni di mantenimento per la figlia), egli ha nel concreto dimostrato di non temere un conseguente trasferimento di residenza della figlia (trasferimento, peraltro, che non è mai avvenuto).

Appare, inoltre, poco credibile che un tale stato di soggezione, invalidante un patto nel 2011, sia venuto meno a distanza di soli cinque anni, a fronte di un rischio certamente ancora attuale (essendo la bambina ancora minorenne).

Infine, il marito non considera in alcun modo il ruolo del giudice, al quale compete la decisione sul prevalente collocamento del minore in caso di conflitto tra i genitori.  Nel caso specifico, il minore viveva a Milano da molti anni ed era quindi da escludere che la decisione di trasferire la residenza della minore avrebbe potuto essere assunta unilateralmente dalla madre.

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