Risulta ammissibile l’azione di annullamento per violenza morale degli accordi conclusi in sede di separazione consensuale

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L’azione di annullamento per violenza morale, disciplinata dagli articoli 1427 e ss del c.c., può essere esperita anche in relazione al consenso prestato dai coniugi a patti negoziali conclusi in occasione della separazione consensuale omologata.

A stabilirlo un’importante ordinanza, emessa in data 08/11/2016 dal Tribunale di Milano – Giudice estensore Dott. Giuseppe Buffone – in linea con l’orientamento giurisprudenziale segnato da alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione (Cass. Civ. n. 17902/2004 e n. 6343/2011) in relazione ai vizi inficianti il consenso dei coniugi nella separazione consensuale omologata.

Il contenuto degli accordi di separazione è composto dalle cd. convenzioni di diritto di famiglia, relative prevalentemente alla cessazione del dovere di convivenza, alla regolamentazione degli altri obblighi previsti dall’art 143 c.c. nonché all’esercizio della responsabilità genitoriale – e da un aspetto eventuale ed occasionale, attinente alle intese che esulano dagli elementi essenziali della separazione consensuale e che si collocano nell’alveo dei contratti atipici.

In merito a tali ultimi patti, è pacifico, nella giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, che l’accordo di separazione costituisce un atto di natura essenzialmente negoziale – più precisamente, un negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale rispetto al quale il provvedimento di omologazione si atteggia a mera condizione sospensiva di efficacia (Cass. Civ., n. 2700 del 1995). Le clausole dell’accordo di separazione presentano, pertanto, una loro propria “individualità”, quali espressioni di libera autonomia contrattuale delle parti interessate dando vita, nella sostanza a veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e finalità, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’articolo 1322 c.c. (Cass. Civ. n. 18066 del 2014).

Tuttavia, chiarisce il Tribunale di Milano, con riferimento al caso di specie in cui una moglie aveva di fatto costretto il proprio marito a sottoscrivere l’accordo di separazione consensuale, alle condizioni dalla stessa dettate, sotto la minaccia di trasferirsi definitivamente con la figlia in un’altra città, lontana da quella di residenza dell’uomo, non garantendo a quest’ultimo il diritto di esplicare il proprio ruolo genitoriale, non costituisce violenza morale invalidante il negozio, ai sensi dell’art. 1434 e segg. del c.c.. La mera rappresentazione interna di un pericolo, sebbene collegata a determinate circostanze oggettivamente esistenti, quali la minaccia della madre di fissare la residenza abituale dei figli in luogo lontano da quello abituale, ove il marito non firmi gli accordi per una separazione consensuale, non integra la violenza morale richiesta dagli artt. 1434 e 1435 c.c. per la caducazione del contratto.

Affinché la minaccia sia idonea ad invalidare il negozio, deve essere specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione di uno dei contraenti, provenire dal comportamento posto in essere da una delle parti o da un terzo e risultare di natura tale da incidere sulla determinazione del soggetto passivo, che in assenza della minaccia non avrebbe concluso il negozio (Cass. Civ. n. 13644 del 2004). In presenza di una fase preliminare alla separazione, la minaccia di una madre di condurre via con sé la figlia, ove il marito non le garantisca determinate condizioni economiche, esula dall’ambito applicativo della violenza morale: infatti, l’eventuale timore del marito è frutto di una valutazione del tutto soggettiva e interna che non considera, in alcun modo e nemmeno indirettamente, il ruolo degli organi di Giustizia, ai quali soli compete la decisione in merito al prevalente collocamento della bambina, in caso di conflitto genitoriale (art. 337-ter c.c.).

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