Condanna per omicidio colposo per il medico pediatra che, sottovalutando i sintomi, omette i necessari interventi e cagiona la morte del paziente

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La professione medica è un’ars difficile e complessa, che richiede competenza e professionalità, un profondo senso del dovere e, soprattutto, attenzione e meticolosità, anche nella trattazione dei casi apparentemente più semplici, in quanto anche una semplice influenza talvolta può rivelarsi mortale.

Di recente la Suprema Corte si è trovata ad affrontare il caso di una pediatra, condannata in primo ed in secondo grado dalla Corte d’Appello di Milano, per l’omicidio colposo di un bambino di soli 17 mesi, deceduto a seguito di una grave infezione polmonare.

Alla pediatra si recriminava di aver omesso, da una parte, di visitare al domicilio il minore, il quale da ben 5 giorni non rispondeva alla terapia antifebbrile somministratagli, a differenza del fratellino, che, al contrario, si era ripreso completamente; dall’altra, di aver visitato in maniera superficiale il piccolo, senza rilevare i sintomi della grave setticemia, purtroppo già in pieno decorso, e senza disporre ulteriori esami o consigliare l’invio in Pronto Soccorso.

A poche ore dalla visita suddetta il piccolo decedeva a causa della grave infezione polmonare, che, secondo i consulenti della pubblica accusa, avrebbe potuto esser evitata se il medico avesse visitato per tempo il minore ed avesse approfondito, con i dovuti accertamenti diagnostici, i sintomi che lo stesso già presentava, con la diligenza medica che gli era richiesta per legge oltre che per deontologia.

I dati statistici, infatti, riscontrano che, nei casi di infezione polmonare, una diagnosi ed un intervento terapeutico tempestivi e corretti sono in grado di ridurre sensibilmente i casi di decesso.

La Suprema Corte, sulla scorta di tali argomentazioni, ha ritenuto pienamente provata la condotta colposa, ovvero negligente, del medico, il quale, con il suo atteggiamento “ingiustificatamente attendista” e di generale “sottovalutazione del quadro clinico del paziente”, ha tardato la somministrazione delle cure necessarie al paziente.

La Cassazione, alla luce dei dati statistici analizzati, ha ritenuto altresì provato il nesso causale tra tale condotta colposa ed il decesso del paziente.

Infine, l’organo nomofilattico, alla luce della notevole divergenza tra la condotta tenuta dall’imputata e quella a cui la stessa sarebbe stata tenuta, ha escluso la possibilità di configurare una colpa lieve, tale da escluderne la penale responsabilità, attesa la vigenza, all’epoca dei fatti, del previgente Decreto Legge Balduzzi.

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