L’offesa pubblicata tramite Facebook integra l’ipotesi di diffamazione aggravata prevista dall’art. 595 comma III c.p.

I social network rappresentano i nuovi mezzi di comunicazione i cui contenuti sono idonei a raggiungere, in tempi rapidi, un numero indeterminato o quantitativamente apprezzabile di persone costituendo gli strumenti di pubblicità richiesti dall’ipotesi criminosa aggravata.

In tale contesto, va tutelata l’altrui reputazione anche qualora l’offeso non sia individuato con il proprio nome e cognome, bensì risulti almeno identificabile.

In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10762/2022, la quale sostiene che la pubblicazione di frasi offensive su Facebook integra il reato di cui all’art 595 c. III c.p. anche in assenza dell’indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa.

Deve trattarsi, però, di un contenuto diffamatorio rivolto verso una persona la cui identità risulti quantomeno individuabile, “attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali”.

La diffamazione è procedibile a querela della persona offesa entro il termine di tre mesi dal momento in cui la stessa ha la percezione del contenuto diffamatorio.

La querela, potrà essere presentata in via orale alle forze dell’ordine che ne redigeranno un verbale di ricezione oppure potrà essere elaborata da un avvocato e depositata presso la Procura della Repubblica territorialmente competente.

Successivamente, nel corso del giudizio, la vittima potrà, depositare un atto di costituzione di parte civile al fine di chiedere un risarcimento dei danni subiti a causa della condotta diffamatoria.

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