Il figlio minore: tatuaggio e piercing senza il consenso del genitore affidatario

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La decisone del genitore affidatario di consentire al figlio minore di farsi un tatuaggio o un piercing deve essere condivisa con il genitore non collocatario.

La disciplina dell’affidamento condiviso all’interno di procedure di separazione o divorzio o relativo a coppie non coniugate  è contenuta nell’art. 337 ter c.c., introdotto con D.lgs. 54/2013, ove si prevede che la responsabilità genitoriale debba essere esercitata da entrambi i genitori e che le decisioni di maggiore interesse relative alla prole concernenti l’istruzione, l’educazione, la salute e la scelta della residenza abituale del minore debbano essere assunte di comune accordo tenendo in considerazione le capacità, l’inclinazione naturale e le aspirazioni dei figli.

In altri termini, ciò significa che tutte le decisioni di maggior importanza per il figlio minore debbano essere prese congiuntamente da entrambi i genitori. Tra queste decisioni, si può senza dubbio annoverare il desiderio di un minore di tatuarsi o farsi un piercing, in quanto operazioni suscettibili di ledere l’integrità fisica di un soggetto, incidendo sul diritto alla salute costituzionalmente tutelato.

In particolare, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 45345 del 17/11/2005, ha stabilito che costituisce fattispecie di reato di lesioni volontarie l’esecuzione di un tatuaggio permanente sul corpo di minore senza il consenso dei genitori, potendo ritenersi il tatuaggio – in senso tecnico – una “malattia” che produce un’alterazione delle funzioni sensoriali e protettive della cute.

Per tali ragioni, il genitore che scopre che il figlio minore si è tatuato o ha fatto un piercing con il consenso solamente dell’altro genitore, ha la possibilità di adire l’Autorità Giudiziaria e di esperire i rimedi previsti all’art. 709 ter c.p.c., ossia l’ammonimento, il risarcimento dei danni nei confronti del minore e la condanna al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria.

Più ostico, ma non impossibile, risulta l’ottenimento del risarcimento dei danni nei confronti del genitore che ha effettuato la scelta prestando il consenso, in mancanza di sufficienti indici per rilevare un pregiudizio effettivo patito dal genitore “estromesso” ed il rapporto eziologico tra questo e la condotta dell’altro.

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