Il Tribunale di Treviso riconosce il diritto del coniuge obbligato al pagamento dell’assegno di divorzio di richiedere una revisione dell’assegno sulla base del mutato orientamento espresso dalla Corte di Cassazione in merito al parametro dell’indipendenza o autosufficienza economica del coniuge debole

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Il Tribunale di Treviso chiamato a pronunciarsi in merito ad una domanda di revisione delle condizioni di divorzio sulla base dei nuovi canoni interpretativi formulati dalla Corte di Cassazione con la nota sentenza n. 11504/2017, si è espresso in modo favorevole, ritenendo di dover tenere in considerazione i nuovi principi elaborati dal Giudice di legittimità in termini di “diritto sopravvenuto” al fine di giustificare una eventuale riduzione e/o revoca dell’assegno divorzile, in presenza di un mutamento delle condizioni fattuali dei coniugi.

Tale assunto si fonda sulla circostanza che la Suprema Corte ha precisato con sentenza n. 15481/2017 che il giudice, in sede di revisione dell’assegno, deve adeguarsi ai più recenti orientamenti e verificare se i motivi sopravvenuti alla base della richiesta di esonero dal mantenimento giustifichino una negazione dello stesso a causa dei sopravvenuti mutamenti di fatto, nella misura in cui sussista l’indipendenza o l’autosufficienza economica del beneficiario – parametro che ha sostituito il precedente “tenore di vita”.

Il Tribunale tenendo conto dell’elaborazione giurisprudenziale successiva alla sentenza n. 11504/2017, individua due ordini di parametri da utilizzare al fine di comprendere se vi sia o meno autosufficienza economica del coniuge richiedente l’assegno divorzile. Da un lato parametri di natura personale, dall’altro parametri inerenti la sfera patrimoniale dei coniugi. Per ciò che concerne i primi, vanno ricondotti a tale categoria: a) le capacità fisiche e condizioni personali delle parti; b) le possibilità effettive di lavoro delle parti in relazione alla salute, all’età , al sesso; c) la ricerca da parte del coniuge eventualmente disoccupato di un’occupazione lavorativa consona all’esperienza professionale maturata e al titolo di studi conseguito o l’esistenza di concrete giustificazioni dell’impossibilità, per impedimento fisico o altra condizione personale, a svolgere qualsivoglia attività lavorativa; d) il contributo personale dato dal coniuge alla conduzione del menage familiare; e) la durata del matrimonio, anche in relazione alla circostanza che uno dei coniugi si sia occupato prevalentemente della cura della famiglia, a scapito della propria attività lavorativa e della propria crescita professionale.

Quanto invece ai parametri di natura patrimoniale, devono essere tenute in considerazione: a) le possibilità effettive di lavoro delle parti in relazione al mercato del lavoro esistente nella zona geografica in cui esse risiedono; b) il possesso di patrimoni mobiliari ed immobiliari e di redditi (anche non dichiarati) da parte dei coniugi, tenuto conto anche degli oneri che essi comportano; c) il costo della vita nel luogo di residenza dei coniugi come certificato dai dati Istat più recenti e con eventuale riferimento alla provincia o regione di appartenenza; d) la stabile disponibilità di una casa di abitazione ed il titolo in base al quale è detenuta; e) la capacità di far fronte direttamente alle spese essenziali di vita (vitto, alloggio ed esercizio dei diritti fondamentali) o la necessità di accedere a sussidi economici erogati da enti territoriali o altre strutture pubbliche o private in base al reddito.

A tal proposito, secondo il Tribunale di Treviso sarebbe opportuno superare il dogma della natura assistenziale dell’assegno divorzile e affermare che, dopo il divorzio, sopravvive solo l’esigenza di compensare il coniuge debole per i sacrifici fatti a favore della famiglia durante il matrimonio.

Le pronunce della Corte di Cassazione evidenziano la necessità di non considerare il matrimonio come un vincolo ultrattivo rispetto allo scioglimento dello stesso, col risultato di garantire al coniuge una sorta di “rendita di posizione”, anche considerando il fatto che la scissione della coppia coniugale implica “un inevitabile mutamento in pejus del tenore di vita del coniuge stesso che versa l’assegno”.

Questo criterio di giudizio viene però temperato da un altro, diretto a tener conto della “necessità di equilibrare le fortune economiche dei coniugi rispetto agli sforzi e alle rinunce da ciascuno di essi effettuati a favore della famiglia, in modo tale che il coniuge più debole che al momento dello scioglimento del matrimonio non abbia redditi sufficienti a garantirgli l’indipendenza economica e non riesca a procurarseli incolpevolmente, ottenga un assegno divorzile che rappresenti anche una sorta di riconoscimento per l’attività svolta durante il matrimonio a favore del nucleo familiare”.

Secondo i Giudici trevigiani è vero che, cessato il matrimonio, devono cessarne gli effetti, ma occorre anche tener conto della peculiarità dell’istituto matrimoniale, in quanto implicante una comunione di vita suscettibile di produrre nel vissuto di ciascun coniuge conseguenze destinate a protrarsi ben oltre il suo scioglimento e che, proprio per questo, non possono essere ignorate dall’ordinamento.

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