Licenziamento illegittimo in caso di malattia provocata da mobbing: il lavoratore ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno biologico

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Il licenziamento disposto nei confronti del lavoratore che si assenta per malattia, superando il periodo di comporto concesso dalla legge, non può considerarsi legittimo ed il lavoratore avrà diritto alla reintegra se il motivo dell’assenza per malattia è dovuto a vessazioni e comportamenti persecutori subiti sul posto di lavoro.

Si parla in tali casi di mobbing ovvero di un fenomeno sfornito di qualsiasi normativa disciplinatrice (sia civile che penale) e le cui implicazioni, normalmente aventi notevoli ripercussioni sulla salute del lavoratore, sono regolate solo grazie alla funzione suppletiva della giurisprudenza che lo ritiene  “riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. e dovuta ad una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datore di  lavoro o dai dirigenti protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi dell’equilibrio psico fisico e della personalità del medesimo.

Appare evidente come certi episodi, se ripetuti nel tempo e caratterizzati da comportamenti vessatori posti in essere o dai propri colleghi, in ipotesi di mobbing orizzontale, o dal datore di lavoro, nel c.d. mobbing verticale, possano dare luogo a disturbi di vario genere, da quelli gastro-intestinali e neurologici, a veri e propri stati di ansia, stress e depressione, tutti medicalmente accertabili.

A questo punto, il soggetto che ritiene di essere vittima di determinate condotte potrebbe assentarsi dal lavoro per parecchi giorni, anche per incapacità di affrontare un ambiente così ostile che è stata la vera e propria causa della sua malattia.

Tuttavia, esiste un periodo di tempo preciso che viene concesso al lavoratore per potersi assentare dal lavoro, mantenendo il diritto alla conservazione del posto, denominato “periodo di comporto”.

Superato quest’ultimo, la legge considera che si verifica un’impossibilità sopravvenuta, da parte del lavoratore, di adempiere la propria prestazione, giustificando, in tal modo, uno scioglimento del rapporto di lavoro.

Non sempre, però, la sanzione del licenziamento può essere considerata legittima.

In un caso di un lavoratore dipendente licenziato a seguito del superamento del periodo di comporto la Corte di Cassazione, con sentenza n. 22538/2013, osservava che, qualora la patologia dipenda proprio dalle vessazioni e persecuzioni subìte, ovverosia da quello che comunemente viene definito “mobbing” le assenze non si debbano conteggiare nel periodo di comporto.

Nel caso in questione il lavoratore illegittimamente licenziato, deduceva di aver subìto diverse contestazioni disciplinari e che, durante la malattia, era stato sottoposto a numerose visite di controllo. Così, ritornato al lavoro, dopo l’ennesimo rimprovero ingiustificato, era stato colpito da una profonda crisi psicologica che lo aveva costretto nuovamente ad assentarsi dal lavoro.

Agli atti di causa emergeva che i comportamenti tenuti dai suoi superiori non potevano che configurarsi come discriminatori e che questi ultimi rappresentavano la causa della malattia.

Conseguentemente, il licenziamento intimato nei confronti del lavoratore sarebbe illegittimo e quest’ultimo avrebbe diritto alle tutele previste dalla legge, tra cui quella economica, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Peraltro, in aggiunta all’impugnazione del licenziamento allo scopo di sentirne dichiarare l’illegittimità dal giudice, è possibile anche iniziare una causa di risarcimento dei danni per mobbing.

In questo caso, al lavoratore si chiederà di provare, oltre al danno effettivamente subìto, anche il legame causale tra questo e il comportamento del datore di lavoro, ovvero il nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore.

A tale scopo la giurisprudenza ha elaborato diversi indici per individuare il mobbing, per cui deve trattarsi di una pluralità di atteggiamenti ostili nei confronti del lavoratore, che siano durati nel tempo per almeno sei mesi, posti in essere con un intento persecutorio e che abbiano provocato un danno alla salute.

Infatti, l’art. 32 Cost., laddove indica la tutela della salute come bene dell’individuo e della collettività, si riferisce sia alla salute fisica, sia a quella psichica.

A ciò si aggiunga che anche l’art. 2087 c.c. obbliga il datore di lavoro ad adottare la misure necessarie a salvaguardare “l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Ne consegue, pertanto, che alla luce dell’orientamento seguito ad oggi dalla giurisprudenza si deve considerare illegittimo il licenziamento del dipendente che sia avvenuto per superamento del periodo di comporto, quando la malattia sia determinata dalle condotte persecutorie tenute dal datore di lavoro con sanzioni disciplinari spropositate, richiami ingiustificati e visite fiscali a raffica.

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