Il mobbing viene definito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 359 del 2003, recepita dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, come un fenomeno complesso consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Tuttavia nell’ipotesi in cui le diverse condotte denunciate dal lavoratore non rientrino nel più ampio disegno persecutorio configurante il mobbing, non è escluso che siano ugualmente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, e che possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati dagli artt. 2,3 e 32 della Cost., così come riconosciuto dalla sentenza della Cassazione sez. VI pen. del 8 marzo 2006 n. 31413.

Tali comportamenti, anche ove non siano determinati da norme di legge, sono suscettibili di tutela risarcitoria previa individuazione, caso per caso, da parte del giudice del merito, il quale dovrà valutare se le condotte denunciate, pur non integrando il reato di mobbing, possano essere comunque considerate mortificanti e vessatorie per il lavoratore e quindi ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro, che sarà chiamato a risponderne, sulla base del disposto dell’art. 2087 del c.c. che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore (Cass. 12 maggio 2009, n. 10864; Cass. SU 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. 6 marzo 2006 n. 4774; Cass. 17 febbraio 2009 n. 3785).

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