Mobbing e finalità persecutoria: a chi spetta l’onere della prova?

  1. Home
  2. Diritto del lavoro
  3. Mobbing e finalità persecutoria: a chi spetta l’onere della prova?

Il Mobbing consiste in una serie di atti vessatori protratti nel tempo e posti in essere nei confronti del lavoratore con l’obiettivo di emarginarlo.

Tra le condotte suscettibili di arrecare pregiudizio vi è il demansionamento professionale, finalizzato ad esasperare il lavoratore con ripercussioni negative su salute e patrimonio, e rappresentano fenomeni tipici per rassegnare le proprie dimissioni.

Le dimissioni per giusta causa, disciplinate agli artt. 2119 e 2118 c.c., configurano l’ipotesi in cui il lavoratore subordinato sia legittimato a interrompere il rapporto di lavoro prima della scadenza del termine in presenza di contratto a tempo determinato o, nel caso di contratto a tempo indeterminato, senza preavviso, al verificarsi di un sistematico impedimento che non ne consenta la prosecuzione, anche provvisoria.

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2119 e 2118, secondo comma c.c., il prestatore di lavoro che receda per giusta causa non dovrà corrispondere l’indennità sostitutiva di mancato preavviso, bensì ne avrà diritto in presenza di un rapporto a tempo indeterminato, oltre a beneficiare dell’indennità di disoccupazione (Naspi).

Qualora il datore di lavoro non riconosca la giusta causa, trattenendo o non versando l’importo di cui sopra, il lavoratore potrà agire in giudizio per chiederne l’accertamento ed ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per le lesioni all’integrità psicofisica subite. La giurisprudenza è unanime nel chiarire che l’onere di provare la condotta mobbizzante grava in capo al lavoratore.

Al fine di dimostrare la finalità persecutoria dei provvedimenti datoriali non sarà sufficiente, dichiararne l’illegittimità ma sarà necessario dimostrarne il carattere persecutorio, provando che il datore di lavora abbia agito esclusivamente sulla base di circostanze pretestuose.

Menu